Anna Calvi@Largo Venue 20181123
“Un
ottimo album pieno di gemme nascoste, sfumature accorte e di
ricercate sottigliezza, la conferma di un talento, un elogio
liberatorio ed ispirato alla pansessualità, che però...però
risulta monco del PEZZO, della killing track che lo renda davvero
memorabile, quando il suo predecessore, quell’One Breath che ha
donato le luci della ribalta alla trentotenne cantatutrice
britannica, ne era così ricco.”
Unanimi
i commenti della critica per l’album numero 3 della signorina
Calvi.
Un
ciurlare nel manico per non dire che dopo 5 anni, un lasso di tempo
enorme nei tempi della musica tutto e subito e gratis,
dall’ingombrante lavoro precedente, ci si aspettava di più oppure
un monito, vigliacco e timorato, per spiegare che per capirci
qualcosa di the Hunter, li va dedicato tanto tempo e tanti
ripetuti ascolti, quanti non ci si aspettano da un album dalla durata
di circa 45 minuti?
Questi
i dubbi che mi attagliano mentre varco per la prima volta le porte
del Largo, grazie alle capacità della Prof, mio sapiente navigatore,
in un’atmosfera di disagio crescente: perché i buttafuori sono
tutti gentili? Perché la birra non è troppo annacquata? Perché la
barista mi ringrazia quando pago e respinge in fondo alla sala,
fulminandole all’istante, le due sciacquette che tentano di saltare
la fila? Come si fa a rendere dal vivo i complessi arrangiamenti di
cui si nutrono gli LP di colei che ha avuto i natali in un sobborgo
di Londra di cui ignoravo l’esistenza senza l’aiuto di wikipedia? Come facevano a sapere le cose prima di wikipedia?
Si
spengono le luci, la strumentazione ci appare invero scarna scarna:
alla destra del palco una batteria, dietro le cui pelli siede un
tizio con stampato sulla faccia “Session Man” che si vede
lontano un miglio che ha studiato alla scuola di entusiasmo per
bidelli di Geoff Farina, mentre alla sinistra, tra sinistri pezzi
metallici, tastiera e synth campeggia una clone Kim Gordon, costretta
a lavorare di natale in un grande magazzino perché Thurston Moore
non le paga gli alimenti.
Alle
22.24, sullo sfondo un un sipario rosso, fa il suo ingresso in scena
Anna Margaret Michelle,
camicia cremisi di ordinanza
e pantaloni alla zuawa, una bambina che ha pasticciato
con i trucchi della madre e
per cui ti chiedi dove possa
trovare la forza per reggere la telecaster.
E
gioca, la Calvi, ad apparire allucinata,
quando invece, e lo dimostrerà per tutto la durate del concerto, è
un’accorta calcolatrice, implacabile
ed impeccabile nell’esecuzione, abile
nel calibrare ruoli e
tonalità sempre diverse,
impressionante nel suo smarcarsi dalle aspettative dei presenti, ad
esempio un solo ripescaggio-imho minore- da One
Breath, quanto
nello stupire, meravigliare, e fomentare come di rado mi capita ormai
ad un concerto.
Una
predatrice di 150 centimetri che sa bene che le fondamenta della sua
poetica non si basano su archi e orpelli
di cori, accorati atti
di prestigio da
studi o miriadi di sovra-incisioni, ma su due sole cose: una voce e
una chitarra, pronte a piegarsi ad ogni suo volere.
Ed
è appunto Hunter che
apre le danze: minimale
tappeto di batteria e tastiere, e un canto pieno ed avvolgente, che
coccola e scalda il pubblico, con la reiterazione di quel “want to
play”che un manifesto ed una dichiarazione programmatica:
un continuo giocare/recitare,
un trasformarsi e
reinventarsi che è l’essenza dell’essere artista, perché,
sia sa, le
pietre rotolanti, etc.etc..
La sei corde rimane in panchina, ceselli distorti e straziati
rivelati con parsimonia.
Sgocciolare
di arpeggi tronfi di delay, flanger, pigra lussuria e simulato
tremore seduttivo nel ritornello per la successiva swimming
pool, ed è quindi la volta
volta di As the Man, che
cresce, cresce ed esplode in un trionfo di grattugiare
sulla chitarra.
Indies
o Paradise si fa perdonare
l’uso del basso pre registrato, portandoci sulla rotta di Magellano
utilizzando come vele le
coperte di una generosa
meretrice, senza
risparmiarci una tempesta
gonfia di distorsioni e fuzz.
Wish
inizia con un reiterare di due
accordi sferragliati con grazioso furore punk che ci lancia in un
head banging degno dei vecchi tempi del Traffic,
con clone kim che si assenta per fumarsi una sigaretta in bagno
lontano dal capo reparto e tornare giusto in tempo per innalzare, con
bordate incandescenti di tasti bianchi e
neri, la
minuta leader su una torre
di babele pronta a portarsi
a letto Dio, ma giunta in cima, questa rotola giù piegandosi su se
stessa e sulla fender, e
mentre compaiono echi dei
Suicide, Anniuska incombe
sul microfono come una Medea pronta a fare scempio delle carni dei
figli e tutto viene avvolto
da luci rosse che pare di stare su un set cinematografico in
compagnia di Luciano Tovoli e
sostanze psicoattive varie usate in maniera creativa e ricreativa.
E’
l’apice del concerto che rivela tutta la natura di the
Hunter:
un album
scritto, pensato e provato a lungo, ma incapace di racchiudere nella
sua durata brani che hanno ormai poco della forma canzone
tradizionale e che mal si adattano al concetto stesso di disco. Un
compromesso doloroso tra cosa si voleva scrivere,
tanto, forse troppo,
e l’esigenza ad una certa, di tirare le fila e pubblicare.
Piace
pensare che da qualche parte esistano registrazioni delle sessioni di
incisione,
tipo che so, una The
Hunter-Get Up with It edition,
libere dai vincoli della durata, dove ogni composizione viene
provata senza sosta, fino a deformarsi e rinascere altra, un
oroboro sonico che trova senso solo nel suo continuo esistere.
Da
qui in poi il concerto continua in maniera ottima ed impeccabile, ma
privo di quel gusto avventuroso che lo ha caratterizzato fino a
questo momento.
Ecco
quindi l’oscuro languore elettrico di Away e
tre
brani pescati dal passato: il
divertissment chitarristico di Rider to the Sea,
una Sing to Me resa
con verve di consumata e tascabile diva e il nervoso ammiccare di
I’ll be your man,
che strappano applausi a mani basse.
Si ritorna sull’ottovolante del
parco di giochi a tema Kama, con lo sbarazzino incedere di Don't
Beat the Girl Out of My Boy, che
fa dondolare con sorriso ebete pure chi fa la fila per il bagno.
Alpha, Les
Rallizes Dénudés
sotto
sedativo, chiude la
prima parte della performance.
Nell’encore
si concede di nuovo un contentino ai fan della prima ora con le
briose atmosfere di Desire ed
è poi la volta del gran finale.
Suicide
si diceva sopra e Anna Pocket decide di fare sua la celeberrima Ghost
Rider. Un me molto più giovane scriveva su
queste pagine che il primo
brano dell’esordio a firma Alan Vega e
Martin Rev era il
fantasma elettrico del rock’n’roll che ballava, sbavando
epilettico,
in un cimitero di auto abbandonate, in attesa di essere dimenticato.
Lo spirito della vendetta fuso con Anna gnoma, invece,
sarà
stato pure sepolto, ma qui scava gioioso e selvaggio verso la
superficie, con vogliosa ed
irrefrenabile verve.
Sbaglia
direzione, perde senso dell’orientamento, torna
indietro, ma non gliene
importa più di tanto, conserva
il suo ghigno anfetaminico,
assolutamente certo che prima o poi riuscirà a rivedere le stelle e
a re-indossare
il suo giubotto di splendente pelle nera.
Dopo
un’ora e cinque si riaccendono le luci.Sorridono tutti.
Un’artista
enorme.
Charlie "Aguirre" Scarpino
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