PRIMA DEL MACCALLAN!

2006 – Grande è lo iato che separa l'aspetto da vecchio rimastone – Tatuaggi Sbiaditi, Lunghi Capelli Rasta, pancetta prominente, occhiali a fondo di bottiglia – e la lucidità con cui Keith Morris racconta (NdA: nel documentario American HC) di quando l'arte musicale si dovette fare brutale per opporsi alle mustruosità del sogno americano, da lì a poco destinato ad incarnarsi nella presidenza di Ronald McDonald Reagan.
1980 – Lasciati
(abbondati? Cacciato? La vicenda non è stata mai chiara...) i Black
Flag, il ventiquattrenne Keith,
insieme ad altri 3 perfetti esempi di spazzatura bianca, dà alle
stampe Group Sex, meno
di 16 minuti per segnare in maniera indelebile la storia, sancendo
l'unione sacrilega tra Hardcore al calore bianco e dissacrante
ironia, ghigno di Gwynplaine sopra il palco e massacro pogante sotto.
2012 – A
6 anni dalla pellicola di Paul Rachman
e dopo 32 da quell'esordio seminale, Mr Morris, tastato il terreno
con 4 riusciti EP ed uno split con i Melvins,
torna sulla lunga (si fa per dire) distanza con gli OFF!
Poco piu' di un quarto d'ora per dichiarare senza indugi o
compromessi che se le cose sono lungi dall'esser migliorate dai tempi
Circle Jerks, lui di
smettere di fare casino non ne ha proprio voglia. Magari un filino
meno veloce e violento rispetto al passato, ma sempre pronto a
sferrare colpi bassi, come nella proposta King
Kong Brigade, con infame
ilarità. Mai indietreggiare. Mai
cedere. Mai arrendersi.
Come
Mike Watt (Minutemen, FireHose), altro grande padre
fondatore della scena Hardcore americana, che preso per un orecchio
Cedric Bixler-Zavala, e caricatolo a calci su una zattera loro
prestata da Herzog Werner, si mette alla ricerca di
piramidi immerse in inferni verdi, accompagnato da percussioni
minacciose di ostili tribù indigene e dal febbricitante sferragliare
di chitarra acustica, mentre il basso scivola sulla schiena di
serpente del fiume limaccioso, e Toshi Kasai modula con
parsimonia i sui affilati assalti elettrici.
Non
a caso definiti l'anello di congiunzione tra gli Hüsker Dü
ed Rem, i Replacements con l'LP Let it Be
cristallizzano la furia degli esordi in un abrasivo Power Pop. In
quattro sul tetto di una casa nella periferia di Minneapolis,
converse sdrucite, giubbotti jeans, sguardi assonnati e indolenti
dopo i bagordi della festa. L'età adulta bussa alle porte, ma c'è
tempo ancora per uno scanzonato assalto (I will dare), prima
di perdersi in un ritornello che ha l'urgenza di chi sa che deve
cogliere l'attimo perché non avrà più molte occasioni, un attimo
che ha già il sapore della nostalgia consumata in giorni tutti
uguali, spesi tra interminabili turni in fabbrica e le budweiser di
qualche squallido bar di periferia.
Circoletto
Rosso per i Terry Malts, che già per la loro spiccata onestà
attirano le simpatie della redazione di RadioCarlonia. La copertina
con una foto in b/n di un punk in pantofole e moniker scritto in
fucsia e' già un biglietto da visita per gli ascoltatori più
smaliziati. E se non bastasse, ci sono i loro pezzi da due/tre minuti
intrise di fuzz, coretti pa pa pa e distorsioni che subito evocano
sfrontatamente qualcosa di più dell'ombra dei quattro finto fratelli
finto portoricani. Canzoni al fulmicotone di quella sciocchezza
chiamata vita, da cantare in coro con lo stomaco gonfio di birra e il
dito rivolto al soffitto fumoso di locali di quarto ordine. Quei
locali che qui chiamiamo casa.
Quanto
devono esser stati meravigliosamente fuori posto gli Orange Juice,
nella proletaria Edimburgo di fine anni settanta, con il loro vestire
impeccabile, le tasche piene di versioni penguin di classici della
letteratura russa e – cosa peggiore – l'essere fieramente astemi
(da qui il moniker del gruppo). E ovvio che non dovessero essere
particolarmente popolari tra il gentil sesso. Ma i Succo di arancia
ci speravano lo stesso. Lo scontato esito è raccontato nella loro
falling and laughing. Una
minacciosa e ritmata intro,
anelito ad un machismo che appartiene ad un altro universo, si
sgonfia subito per tessere zucchero filato, su cui le sei corde
imbandiscono
un malinconico vaudeville. Collins
sale sul palcoscenico con lo stesso coraggioso disincanto di Alvaro
Vitali in Roma di
Fellini.
E mentre canta con piglio aristocratico e nasale: You say
that there's a thousand like you Maybe that's true I fell or you and
nobody else è facile
immaginarsi le bottiglie e gli ortaggi che volano al suo indirizzo.
Ma lui resiste, fino a quell'ultimo minuto dove ci porta con i suoi
compagni su un bruco-mela (perché sulle montagne russe non ce la
faranno mai) sparato in un abisso di lacrime soffocate e amare
risate.
L'unico
momento di Grandeur che Olafur
Arnalds si deve essere
concesso nella vita è nel titolare i brani del suo Eulogy
for Evolution con numeri, quasi
a richiamare la classificazione di Kochel
per l'opera mozartiana.
Per il resto il giovane (classe '86) compositore, è di un'umiltà
inversamente proporzionale al suo talento. 0048-0729
nasce su un gracile e algido piano che prima si scioglie
di fronte al crescere degli archi, poi zampilla rapido per introdurre
quella fisarmonica che, commuovendo
pure chi ha un'emorroide
arrossata al posto del cuore, da il LA ad uno score di un
koyaanisqatsi girato
tra i ghiacci di Islanda.
Al
freddo Nord Europeo si contrappone la torridezza westernata dei Black
Keys.
L' incipit grasso, unto e distorto di She's
long Gone
si
gusta meglio in cuffia, il sabato mattina, facendo la spesa: movenze
al rallentatore tra i banchi di frutta, sguardi minacciosi alle
confezioni di
maxi
di detersivo, ed ammiccare
sornione alle commesse per sentirsi il superfly del quarterino. Gli
insulti di scherno sono tosto ricoperti dalla lotta senza quartiere
tra il riff torci-tendini e la voce intrisa di negritudine
di Dan
Auerbach
E
se poi non trovate pace su questo mondo, ci pensano gli
Spiritualized. Una voce annoiata da centralista ciancicagomme
annuncia, che-Signore e Signori-stiamo fluttuando nella spazio e
Jason Pierce si fa trino: uno viene cullato da
una languida malinconia alla Nico dentro una bolla di metadone, un
altro si presenta a cavalcioni di un'orchestra con le tasche piene di
benzedrina come un Willy Wonka su di giri, e l'ultimo ci parla, da
una cornetta all'altro capo della galassia – scimmia sulle spalle e
senza neanche un centesimo per prendere l'autobus di ritorno - di
come Richard Ashcroft gli abbia soffiato la ragazza (true
story).
Molto
più terreno l'amore ai tempi dei Chromatics:
Kill
for Love esplode
in immagini di decadente disco di vetro,
trascinandoci in tourbillon di flutes di champagne, passioni
fedifraghe,
e abiti da sera argentei, mentre
Giorgio Moroder in
smoking patrocina un'atmosfera festante che scricchiola sinistra come
l'ossessivo synth del brano: continuare a ballare eleganti mentre
l'universo cade a pezzi. Si chiama classe, dolcezza, come quelle
sfoggiata nel 1981 dai Japan
in Ghost: Bruma
metallica ed echi di abbandonati palazzi della cortina di ferro,
immortalati da foto di scena rubate dal film The
Hunger (Miriam
si sveglia a mezzanotte),
il funambolismo di Mike
Karn
resta in panchina, per dare maggior risalto alla seta vocale
dell'androgino David
Sylvian, assoluta
protagonista del brano, resa immagnifica dai delicati colpi di
xilofono del ritornello, cui replicano gli accordi caldi ed oscuri
delle tastiere, sul cui
dondolare ci salutiamo.
Per
poco.
Spero.
Seriously.
01.King
Kong Brigade (Off!;Off!)
02.Pyramid
mirrors (Anywhere;Anywhere)
03.I
Will Dare (Replacements;Let it be)
04.Where
Is The Weekend (Terry Malts; Killing Time)
05.falling
and laughing (Orange Juice; You Can't Hide Your Love Forever)
06.0048-0729
(Olafur Arnalds; Eulogy for Evolution)
07.She's
Long gone (Black Keys; Brothers)
08.Ladies
and Gentlemen We Are Floating In Space (Can't Help Falling In Love)
(Spiritualized; Ladies and Gentlemen We Are Floating In Space)
09.Kill
For Love (Chromatics; Kil for Love)
10.Ghosts
(Japan; Tin Drum)
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